Reggio Sera è stato in quello che, fino a un mese fa, era il quartiere generale dell’Isis. Una città morta: chiese, seminari e case saccheggiati e devastati dalle fiamme, croci spezzate e madonne decapitate
QARAQOSH (Iraq del nord) – Case bruciate, finestre in mille pezzi e un silenzio spettrale. Qaraqosh, quello che un tempo era il più grande centro cristiano dell’Iraq, oggi è una città fantasma dove ogni traccia dell’identità religiosa di una città da 50mila abitanti è stata spazzata via dalla furia dell’Isis. In lontananza si sentono i colpi di mortaio che ti ricordano che, a pochi chilometri da lì, si combatte ancora per liberare il centro di Mosul dallo stato islamico.
I miliziani di Daesh ne avevano fatto il loro quartier generale e vivevano nelle case dei cristiani fuggiti quando arrivarono i soldati dello stato islamico. Quando hanno capito che per loro era finita, hanno abbandonato la città ripiegando su Mosul, ma prima hanno dato fuoco a tutte le case e le hanno saccheggiate. Qaraqosh è stata liberata circa un mese fa e ora i suoi abitanti stanno facendo timidamente ritorno, in giornata, nelle loro case. Siamo andati là con don Georges Jahola grazie all’aggancio di due giovani cristiani che ora lavorano ad Erbil per Terre des Hommes la onlus che assiste i rifugiati nei campi profughi dell’Iraq del nord.
Don Georges, originario di Qaraqosh, è stato, giovanissimo, quando non era ancora sacerdote, un soldato nell’esercito di Saddam Hussein, poi, con la vocazione, è diventato un soldato di Cristo. E’ stato vice parroco lì fino al 1999. Racconta: “Nel 2003, quando cadde Saddam, qui era il caos. La prima cosa che feci fu quella di fare sequestrare tutte le armi che furono consegnate alla Chiesa”.
E’ stato parroco in Italia per dieci anni a Malnate in provincia di Varese e ora torna nella sua città natale per guidarne la rinascita e riprendere in mano la parrocchia della cattedrale dell’Immacolata Concezione, la più grande chiesa cristiana dell’Iraq. L’esterno dell’edificio è rimasto intatto, a parte il campanile che è stato danneggiato, ma l’interno è completamente bruciato. Il chiostro è disseminato di proiettili dato che i soldati dell’Isis lo usavano come poligono da tiro.
Qui Padre Georges racconta: “Lasciare una città in perfette condizioni e poi tornare e vederla ridotta così, dopo due anni, è veramente triste, perché ci sono i ricordi e c’è la storia qui che, volutamente, hanno voluto cancellare. Qaraqosh è una comunità siro cattolica che cercava di vivere in pace e voleva istruire i villaggi attorno, che sono musulmani, a fare altrettanto, ma questo è stato ripagato in un altro modo. Gente che conoscevamo ci ha tradito. Hanno aderito all’Isis e hanno saccheggiato le nostre case. E questo è forse ancora più triste che vedere una città distrutta. Come possiamo tornare a vivere con questa gente? E’ difficile da accettare. Certo, possiamo perdonare. Però la vita non è fatta solo di perdono, ma anche di dialogo reciproco. Dovrebbero comprendere il danno che hanno fatto. L’Isis non sono persone astratte, ma concrete. Noi li conosciamo. Daesh non è stato importato in Iraq, ma creato e lievitato con l’aiuto della gente del posto”.
Ayman, un giovane cristiano, ci porta nella strada principale a vedere il suo negozio, completamente distrutto dalle fiamme. Passiamo fra cumuli di macerie, negozi saccheggiati, muri cadenti e arriviamo fino alla strada principale. Il silenzio è interrotto solo dai rumori degli spari in lontananza e dai nostri passi che calpestano vetri e calcinacci caduti a terra. “Guarda, qui una volta vendevo elettrodomestici – dice – e ora è stato tutto rubato. Non c’è più nulla. Fra la casa distrutta e il negozio, avrò avuto un danno di 300mila euro. Ricordati amico, non ti fidare dei musulmani. Ecco quello che ci hanno fatto”.
Oltrepassiamo un canale. C’è un odore terribile di petrolio. Spiega Bashar, un giovane avvocato: “Lo hanno riempito di petrolio e gli hanno dato fuoco”. Ci porta a vedere la sua casa. La madonna appesa alla parete è stata fatta a pezzi. I mobili sono stati portati via. A terra restano oggetti spaccati, vestiti, mischiati ai ricordi di una vita: le foto dei genitori e della sorella in vacanza, documenti. Dice: “Vedi? La controsoffittatura è stata strappata per cercare anche lì degli oggetti preziosi da rubare”. Poco più in là c’è il seminario. Le fiamme hanno devastato il cortile interno sovrastato da una croce picconata e spezzata. Si vedono una madonna con in braccio il bambin Gesù: entrambi decapitati. Vetri rotti dappertutto, tutto saccheggiato.
Padre Georges raccoglie un breviario dalla polvere. Sospira e ci racconta il suo progetto: “Abbiamo mappato tutta la città e stiamo procedendo, casa per casa, per fare una stima di tutti i danni fatti dall’Isis. Questo perché nessuno deve dimenticare quello che è accaduto qua, ma anche perché crediamo che sia compito del governo iracheno risarcire i danni. Però, dato che non so quanto sarà in grado di farlo, rivolgo un appello alla comunità internazionale. Sarebbe bello se ogni Paese si prendesse un quartiere per ricostruirlo e magari potremmo mettere la targa di quella nazione che ci ha aiutato a rinascere”.
Usciamo davanti al seminario. E’ ora di pranzo. Il cibo viene messo su un tavolo nello spiazzo davanti: riso avvolto in foglie di vite, olive, pomodori e pano arabo. Don Georges benedice le pietanze, una preghiera e si mangia. C’è tempo anche per un ballo. Questa gente è contenta di poter tornare nelle loro case. Qualcuno tira fuori una bandiera dell’Isis che, ora, non fa più paura. Ci si può perfino scherzare.
Alcuni cristiani ci accompagnano sulla linea del fronte. Qui l’esercito iracheno sta costruendo con le ruspe una grossa barriera di terra, a scopi difensivi, davanti alla città di Qaraqosh. Un soldato ci mostra Mosul in lontananza, avvolta da nuvole di fumo denso e nero. Ci spiega che l’Isis è a pochi chilometri da lì e che non si può passare.
Al ritorno saliamo, verso il tramonto, con don Georges su una collina che sovrasta la piana di Ninive dove sventolano la bandiera delle milizie cristiane e quella irachena davanti a una croce. C’è un senso di pace, quella che manca ancora, purtroppo, laggiù. Il sacerdote guarda l’ultimo raggio di sole sparire dietro Mosul e si domanda: “L’Isis sarà sconfitto, ma dopo cosa accadrà ai cristiani dell’Iraq del nord? Non siamo né sunniti, né sciiti, né curdi. Nessuno ci darà una mano per rimanere in questa terra. Ci serve la protezione internazionale. Se il mondo vuole che questa zona non sia privata dal cristianesimo, deve farlo”.
(2-continua)