Cattini, quando la tradizione è una cosa seria

La trattoria, tra Rivalta e Montecavolo, è stata fondata nel 1986 da Cesare, recentemente scomparso. Un carrello dei bolliti degno di tutela dall’Unesco
REGGIO EMILIA – Si fa presto a dire “tradizione”. Che cos’è la tradizione? Esiste la tradizione? “La tradizione non è altro che un’ innovazione ben riuscita”, ha detto Bottura: geniale. Peccato che questa definizione non l’abbia coniata lui. L’abbiamo sentita anche in bocca a Carlo Petrini, presidente di Slow Food. L’ha pronunciata recentemente lo stesso Primo Ministro Paolo Gentiloni e, si sa, quando una cosa la dice perfino un politico, non è detto che sia vera ma è sicuro che sia ormai entrata a far parte del senso comune. Comunque, nessuno di loro è l’autore di questo affascinante aforisma: la frase infatti ha un padre veramente illustre, niente po’ po’ di meno che Oscar Wilde in persona.
Alberto Grandi, un docente dell’Università di Parma, autore di un saggio di fresca pubblicazione, “Denominazione di origine inventata”, ha dichiarato che il vero Parmigiano-Reggiano, quello più fedele alla tradizione, è il Parmesàn del Wisconsin. La forma di formaggio che conosciamo, secondo Grandi, solo recentemente ha assunto le caratteristiche che la contraddistinguono oggi. Fino al secolo scorso le forme di Parmigiano-Reggiano erano più piccole, raramente pesavano oltre 10 kg, e la crosta era decisamente più scura. Proprio come il Parmesàn del Wisconsin, dove probabilmente – così ipotizza Grandi – qualche immigrato proveniente dalle nostre terre ha iniziato a produrre il prezioso formaggio nel XIX secolo secondo canoni che successivamente non hanno recepito le variazioni del disciplinare imposte dal Consorzio.
Gli esempi potrebbero continuare quasi all’infinito. La ricetta della Carbonara, piatto che come pochi altri identifica i territori dell’Italia Centrale e Roma in particolare, ha un’origine non chiara. Secondo alcuni autorevoli studiosi, contestati però da altri che invece ne fanno risalire l’origine ai carbonai umbri e marchigiani che portavano il carbone a Roma nell’’800, la Carbonara sarebbe stata inventata dai soldati americani di stanza nel Lazio durante la seconda guerra mondiale, che avevano l’abitudine di mischiare il loro rancio quotidiano (pancetta affumicata, uova liofilizzate, ecc.) al piatto italiano tipico che più tipico non c’è, la pasta. E la pizza? Vogliamo parlare della pizza? I Cinesi, benchè sia arduo immaginare un piatto identificabile con il made in Italy più della pizza, ne rivendicano la paternità. Però, e lo ha spiegato pochi giorni fa in un’intervista al “Foglio” Alberto Angela, il divulgatore televisivo più amato dalle Italiane, “la pizza è un modo di panificare che è del neolitico, gli Italiani hanno aggiunto una cosa che viene dall’America (il pomodoro ndr) e un’altra che è un modo di produzione casearia dei Longobardi, la mozzarella di bufala”.
Insomma, perfino la pizza sarebbe un piatto meticcio e multiecnico. Chi ha ragione, allora? La risposta non può darla il vostro cronista, che non ha uno straccio di cattedra nemmeno in un’università di provincia, non gestisce un ristorante tristellato Michelin e non scrive su “Identità Golose”. Abbiamo però il sospetto che possa essersi avvicinata al vero Laura Morandi, la chef dell’Hosteria Giusti di Modena, quando, chiacchierando con noi di ragù e altre specialità emiliane, ci ha fatto notare che la cucina di tradizione dell’Italia non è quella dei cento campanili, ma è quella di ogni singola famiglia: la tradizione in Italia varia da casa a casa, ogni nonna ha tramandato a figli e nipoti un proprio modo di cucinare e ricette più o meno originali che hanno la stessa dignità dei piatti cucinati dalla famiglia della porta accanto. Ricapitolando, noi non sappiamo se la cucina di tradizione esista effettivamente o no. Ma se esiste, a Reggio Emilia la potete sicuramente trovare al ristorante Cattini.
La trattoria, adagiata in un angolo di verde al confine tra Rivalta e Montecavolo, nel territorio comunale di Quattro Castella, è stata fondata nel 1986 e da allora non è cambiata molto. Meno di due anni fa è venuto a mancare Cesare, e il timone del comando è passato nelle mani della figlia Monica, coadiuvata dalla cugina Emanuela e da un po’ di tempo, in cucina, anche dal cuoco Gabriele. Le sedute sono circa 45, racchiuse in un’unica sala, il che rende l’ambiente un tantino rumoroso. Il servizio è assai informale. Sui tavoli, accanto a piatti sul bordo dei quali è dipinta la scritta “Da Catein”, ci attendono i ciccioli croccanti, la mortadella tagliata a cubetti, un salame nostrano e le deliziose polpettine di erbetta. La carta dei vini è piccola e dominata dal Lambrusco, ma troviamo e ordiniamo, tra i rossi fermi, il Sangiovese superiore biologico “Baccareto” di Paride Benedetti, coltivato sulle colline della Romagna nella Tenuta Santa Lucia di Mercato Saraceno.

Monica Cattini alle prese con il carrello dei bolliti
Tra i primi spiccano i tortelli verdi e di zucca, le tagliatelle al ragù, i cappelletti in brodo e le lasagne. Ma è con lo strepitoso carrello dei bolliti e degli arrosti che il Ristorante Cattini dà il meglio di sè e l’entusiasmo del vostro cronista decolla. Lingua, zampetti, nervetti, manzo, cotechino, gallina, faraona, coniglio, vitello, lonza, prosciutto, coppa…E’ la stessa Monica Cattini a portarci il carrello, lei li cucina e lei li serve: un po’ si schermisce quando le chiediamo una foto. “Sa – ci dice – il carrello qualche minuto fa era ancora più bello, alcuni clienti li abbiamo già serviti”. A noi quel carrello dei bolliti e degli arrosti sembra comunque una meraviglia, se dipendesse dal vostro cronista meriterebbe di diventare il 55esimo giacimento artistico italiano tutelato dall’Unesco e di entrare in una delle future trasmissioni di Alberto Angela.
“Li cuciniamo secondo la ricetta della nostra famiglia”, dice Monica, e in quell’esatto istante ci tornano alla mente le parole di Laura Morandi. Accompagnano il succulento trionfo di carni la salsa verde, la giardiniera, la salsa di rafano e la mostarda. La reggianità è spinta al massimo anche tra i dolci, con zuppa inglese, torta di tagliatelle e torta in cantina. Vicino all’ingresso, incorniciate, sono esposte 5.000 lire: sono il conto che pagò il primo cliente del ristorante Cattini. Ce ne andiamo contenti, la tradizione da Cattini c’è, è una cosa seria e ha il sapore dell’autenticità.