Aemilia, la difesa di Bolognino: “Non era boss, ma un signor nessuno”
L’avvocato difensore Pisanello: “Si è fatto anni di carcere e voleva solo lavorare”
REGGIO EMILIA – Dichiarazioni contrastanti dei pentiti sul suo conto, prove che dimostrano il suo ruolo marginale nell’attivita’ di falsa fatturazione, intercettazioni che si prestano a differenti interpretazioni e documenti che attestano come non fosse un “caporale” ma pagasse regolarmente i suoi dipendenti. Sono gli elementi che l’avvocato Carmen Pisanello -nell’udienza di questa mattina a Reggio Emilia del processo Aemilia contro la ‘ndrangheta – mescola nell’arringa pronunciata per la difesa di Michele Bolognino. Uno che, dice il legale, “non era nessuno e si era fatto solo un sacco di carcere”, oppure (in un altro passaggio dell’intervento) “un cane sciolto che non ha padroni o inservienti: e’ solo lui”.
Insomma, un’immagine dell’imputato molto piu’ “diluita” del ritratto descritto dai pubblici ministeri che per Bolognino – oggi all’Aquila in regime di carcere duro – hanno chiesto una condanna a 30 anni di reclusione in qualita’ di “capozona” per il parmense della cellula emiliana della cosca di Cutro. Dentro e fuori dal carcere dagli anni ’90 (con condanne per associazione mafiosa, droga, armi e ricettazione), Bolognino si e’ creato dal nulla, diventando da semplice operaio un imprenditore edile e piu’ avanti titolare di fatto di bar e ristoranti, tra reggiano e parmense in cui sarebbero confluiti i soldi sporchi della ‘ndrangheta.
Per l’avvocato Pisanello il suo assistito e’ stato invece aiutato dalle “coincidenze della vita”, che lo hanno portato a conoscere persone con cui lavorare, mentre i locali sarebbero stati il “ripiego” di Bolognino una volta caduto in disgrazia con le banche, nella sua attivita’ di imprenditore edile. Tra le conoscenze dell’imputato, in particolare l’amicizia con la famiglia dell’imprenditore di Modena Augusto Bianchini, suggellata per l’accusa con un patto che aggirava le regole sugli appalti e quelle sulla contribuzione ai dipendenti. Operai che Bolognino aveva fornito a Bianchini, quando questi lo chiamo’ per avere carpentieri, da impiegare nella ricostruzione.
“Dagli atti – scandisce Pisanello – emerge che la cassa edile per questi operai e’ stata pagata, non hanno mai fatto straordinari e i buoni pasto che non hanno ricevuto sono dipesi dalla Bianchini”. Inoltre “c’e’ un intercettazione che racconta come Bolognino si reca a lavorare in un cantiere di domenica: e’ un caporale questo?”. Pisanello si concentra poi sulle dichiarazioni fatte dai collaboratori di giustizia del processo sull’imputato. Angelo Salvatore Cortese “Bolognino non l’ha mai incontrato”, mentre per Antonio Valerio e Giuseppe Giglio “non ha mai fatto false fatturazioni: voleva solo da lavorare”.
Quanto all’appartenza di Bolognino alla ‘ndrangheta, infine, le sue origini criminali lo collocano appartenente alla cosca dei Megna, per cui lavorava come buttafuori nei locali notturni. Anche qui per il difensore una storia poco credibile visto che “nei locali di Reggio non si e’ mai visto” e in quelli di Parma “era con delle donne”. I pentiti insomma, dice Pisanello, “vanno difesi ma la loro credibilita’ va verificata” (fonte Dire).