Don Dossetti: “Don Pasquino Borghi, la sua memoria appartiene a tutti”
Il parroco di San Pellegrino: “In tempi non facili, seguire il suo esempio di carità, giustizia e servizio ha un’efficacia appagante”
REGGIO EMILIA – Mercoledì prossimo, 30 gennaio, verrà ricordato il settantacinquesimo anniversario della fucilazione di don Pasquino Borghi e dei suoi otto compagni. Dall’anno scorso, il vestito, che indossava al momento dell’esecuzione (il cappotto, poiché la veste talare gli era stata lacerata nella caserma dei carabinieri di Villaminozzo), è esposto nella sagrestia della chiesa di san Pellegrino a Reggio. Esso porta distintamente i segni dei proiettili.
Altri oggetti, modesti ricordi della sua vita sacerdotale, si possono vedere in un locale della parrocchia. Alle 16, al Poligono di Tiro, verrà tenuta la commemorazione dei caduti. Successivamente, ci si trasferirà alla chiesa di san Pellegrino per la celebrazione della S. Messa di suffragio, alle 18. E’ cosa singolare che don Pasquino Borghi venga ricordato e onorato sia dalla Chiesa che dalla comunità civile. Per quanto ne so, si tratta di un caso unico, almeno nella nostra provincia.
Ancora più significativo è il fatto che non si tratta di una memoria facile. Egli ha fatto la sua scelta nel momento più oscuro e doloroso della storia d’Italia: il Paese occupato da truppe straniere, spaccato a metà, afflitto da lutti, da bombardamenti, disorientato, senza guide credibili, oppresso dalla brutalità nazifascista. La stessa Chiesa aveva vissuto, nel ventennio fascista, nel “collateralismo conflittuale”, come lo ha chiamato Spreafico.
Dopo l’8 settembre 1943, il travaglio si era accentuato e la neutralità appariva sempre più impossibile. Poteva, un parroco, non dir nulla ai suoi giovani, giovani dai 18 ai 20 anni, che venivano chiamati a entrare nel nuovo esercito della Repubblica Sociale? Il bando, affisso sui muri delle città, non aveva firma, ma era attribuito al maresciallo Graziani, ministro della difesa nazionale. Verrà chiamato “bando Graziani”.
Con una minaccia mai apparsa in precedenza, né in Italia né altrove, il testo fa capire la situazione: “In caso di mancata presentazione dei militari soggetti alla predetta chiamata, oltre alle pene stabilite dalle vigenti disposizioni del codice militare di guerra, saranno presi immediati provvedimenti anche a carico dei capi famiglia”. Dopo qualche mese, la minaccia sarà aggravata: contro i renitenti alla leva, cioè i giovani delle classi 1923-1924-1925, e i “disertori”, cioè gli ex militari che non si ripresentano ai loro reparti, c’è la pena di morte.
Don Pasquino fece la sua scelta, che gli costò la vita. Con la sua morte, contribuì a orientare i cristiani a un impegno più generoso e consapevole nella resistenza e successivamente nella ricostruzione. Nello stesso tempo, a tutti propose un criterio: la carità, intesa però non soltanto come benevolenza e aiuto agli svantaggiati, ma come rivendicazione della dignità dell’uomo, anche a costo del sacrificio.
Il nostro vescovo Massimo, inaugurando, un anno fa, l’esposizione della veste di don Pasquino, disse: “Il sangue è diventato luce”. In effetti, il sangue è una cosa talmente seria, che favorisce una riflessione profonda, purifica dalle banalità e richiede di dare alla propria vita un orientamento generoso alla giustizia e al servizio.
Per queste ragioni, la sua memoria appartiene a tutti. In tempi non facili, come i presenti, seguire l’esempio di don Pasquino ha un’efficacia pacificante. La carità, anche a costo del sacrificio, e il rispetto per ogni uomo divengono gli strumenti di una giustizia, che ci fa sentire un po’ più in pace con noi stessi e con il divino Giudice.