Mafie, la Dda “Caruso usava impiego in dogana per aiutare ‘ndrangheta”
Secondo la Direzione distrettuale antimafia il presidente del consiglio comunale di Piacenza, che è stato arrestato, avrebbe “messo stabilmente a disposizione le prerogative, i rapporti professionali e amicali e gli strumenti connessi al proprio lavoro”
REGGIO EMILIA – Avrebbe “messo stabilmente a disposizione le prerogative, i rapporti professionali e amicali e gli strumenti connessi al proprio lavoro di dipendente dell’Ufficio delle Dogane di Piacenza per il perseguimento degli interessi” del sodalizio ‘ndranghetistico colpito oggi dall’operazione ‘Grimilde’ della Dda di Bologna, e anche per questo e’ stato colpito da un provvedimento di custodia cautelare in carcere.
Questo, a quanto si legge nell’ordinanza del gip Alberto Ziroldi, sarebbe stato il ruolo di Giuseppe Caruso, esponente di Fratelli d’Italia e attuale presidente del Consiglio comunale di Piacenza, all’interno dell’organizzazione mafiosa portata alla luce dalle indagini iniziate nel 2015.
Inoltre Caruso, assieme al fratello Albino e ad altri indagati, partecipo’, come emerge dalla ricostruzione degli investigatori, “a riunioni per dirimere conflitti con soggetti esterni alla struttura ‘ndranghetistica emiliana”, oltre ad occuparsi “della gestione del patrimonio illecito della consorteria, degli investimenti e della gestione di attivita’ imprenditoriali (anche tramite condotte di riciclaggio, reimpiego di denaro di provenienza delittuosa in attivita’ economiche, intestazione fittizia di beni, ricettazione e truffa)”.
Tutte condotte sufficienti, per il pm Beatrice Ronchi, per contestargli il reato di associazione mafiosa, visto che lui e altri si sarebbero “messi a completa disposizione degli interessi della cosca, cooperando con gli altri associati nella realizzazione del programma criminoso del gruppo”. Parlando di se stesso in una conversazione intercettata, Caruso affermava senza mezzi termini di avere “mille amicizie da tutte le parti” e di “sapere dove bussare”, aggiungendo pero’ che per non ‘bruciarsi’ doveva essere “tenuto esterno”, perche’ se fosse stato “immischiato” gli sarebbero state “chiuse le porte”.
Secondo gli investigatori, una vicenda particolarmente significativa per definire il ruolo di Caruso all’interno dell’organizzazione. Si tratta della vicenda dell’azienda mantovana ‘Riso Roncaia’, Su cui per gli inquirenti “si misura la cifra criminale del sodalizio sia sotto il profilo della capacita’ di comporre contenziosi secondo le regole tipiche delle consorterie criminali, sia sotto quello della capacita’ di condizionamento di un’impresa in difficolta’ finanziaria”.
Proprio parlando della ‘Riso Roncaia’, infatti, Caruso, in una conversazione intercettata, afferma senza mezzi termini: “Io con Salvatore (Grande Aracri, ndr) gli parlo chiaro, gli dico: ‘Salvato”, noi non la dobbiamo affogare sta azienda, dobbiamo cercare di pigliare la minna (termine dialettale che significa seno o mammella, ndr) e succhiare o no?”. E questo, si legge nell’ordinanza, e’ esattamente quello che e’ successo alla ‘Riso Roncaia’, che dopo essersi incautamente rivolta al clan per risolvere un contenzioso con una ditta legata a un’altra cosca e’ stata sfruttata, dal punto di vista economico, dai suoi ‘benefattori’.
In prima battuta Caruso si spese per ‘tamponare’ i problemi legati ai debiti che la societa’ aveva con Unicredit, e in seguito fece in modo di far ottenere alla ‘Riso Roncaia’ una proroga non dovuta nella consegna di riso da fornire a persone indigenti nell’ambito di un finanziamento da 6,8 milioni che l’azienda aveva ottenuto dall’Agea (Agenzia per le erogazioni in agricoltura da parte dell’Unione europea). La ditta, viste le sue difficolta’ finanziarie, non era in grado di consegnare il riso nei tempi previsti, e Caruso si adopero’ da un lato cercando l’aiuto del politico del Pd Mario Pirillo (ex vicepresidente ed assessore della Regione Calabria, ex europarlamentare e vicepresidente dell’Agea dal 2006 al 2009, non indagato) per fare ottenere una proroga all’azienda, e dall’altro giustificando la richiesta di proroga con un documento che certificava, falsamente, la riparazione di un compressore per un guasto ovviamente inesistente.
Infine, la ‘Riso Roncaia’ si rivolse alla consorteria mafiosa per risolvere una controversia con una ditta import-export di Voghera che le aveva venduto una partita da 120.000 quintali di riso avariato. Una ditta, quest’ultima, legata alla ‘ndrina Chindamo-Ferrentino della provincia di Reggio Calabria. La questione fu risolta in un summit a cui parteciparono, tra gli altri, i fratelli Caruso, ma da allora la ‘Riso Roncaia’ fu costretta a sottostare a tutte le richieste dell’organizzazione mafiosa, come un contratto a una ditta ‘amica’ per il trasporto del riso, ovviamente a prezzi molto superiori a quelli di mercato, e il pagamento di grosse somme di denaro (Fonte Dire).