Il 42enne scrive ai giornali e dice: “Sono un consumatore consapevole di party drugs. Se si ritiene che il tema “sostanze” sia importante, non possiamo più permetterci di affrontarlo in maniera così grossolana e ideologica”
REGGIO EMILIA – Riceviamo e pubblichiamo una lettera inviata ai giornali dall’educatore 42enne arrestato in stazione dopo essere stato trovato in possesso di droghe sintetiche. L’uomo, che lavora in una cooperativa impegnata nel recupero di soggetti dediti anche al consumo di stupefacenti, ha voluto fornire alla stampa la sua versione dei fatti tramite il suo avvocato Giuseppe Caldarola.
Mi trovo costretto a scrivervi, dopo giorni in cui leggo sul mio conto e sulla vicenda che mi sta riguardando, informazioni inesatte quando non palesemente false riportate con parole approssimative e fuorvianti. Senza alcun intento polemico, lo scopo di questa lettera è quello di spiegare chiaramente la mia posizione e riportare il discorso ad una corretta terminologia e ai suoi reali contorni.
Premetto che, come io mi prenderò la responsabilità di quanto in mio possesso secondo la legge, ho dato mandato al mio legale, l’avvocato Caldarola, di procedere nelle modalità e coi tempi che riterrà più opportuni al fine di accertare se qualcun altro dovrà prendersi responsabilità nei miei confronti, sempre secondo la legge, per il danno che ritengo di aver subito da quanto uscito in questi giorni sul mio conto, a partire dall’attenzione morbosa alla professione, dando per scontata una relazione tra le mie condotte di vita personale e il mio lavoro, come se il teorema investigativo dell’accusa fosse già una certezza processuale, fino alla pubblicazione di informazioni palesemente false e smentite dai verbali come ad esempio che avessi con me in tasca 9 pastiglie di Buprenorfina o che abbia dichiarato di non occuparmi di tossicodipendenti.
Premesso ciò. Io lavoro con persone con problemi di dipendenza e consumi problematici da 13 anni. Ho negato di lavorare in una comunità di recupero, come scritto nei primi articoli, perché il mio ambito di lavoro è la riduzione del danno.
Lavoriamo cioè con consumatori attivi di sostanze, spesso non motivati al cambiamento, con l’obiettivo di ridurre il più possibile i danni a se stessi e al tessuto sociale del territorio correlati al consumo. Ad esempio distribuendo siringhe pulite e facendoci consegnare quelle usate in modo che non vengano lasciate in giro, distribuendo profilattici, facendo test sulle malattie trasmissibili ecc….
Proprio per questo mi è ben chiara la differenza fra stato alterato di coscienza e dipendenza e fra sostanze con un alto profilo di rischio e problematicità, come eroina e cocaina, ed altre che, al contrario, possono essere utilizzate in modalità consapevole e controllato.
Uno dei principi del mio lavoro è che non è lo stato alterato di coscienza in sé ad essere negativo e oggetto di lavoro, ma i comportamenti correlati: se una persona, per consumare sostanze, arriva a commettere reati, avere profili di pericolosità sociale o anche semplicemente a rovinare relazioni personali a cui tiene o a spendere più soldi di quanto vorrebbe, ad esempio, siamo in presenza di un problema su cui lavorare.
Se al contrario l’utilizzo di sostanze non compromette la qualità della vita e non arreca danno ad altri, siamo in presenza di un consumo consapevole. Io mi ritengo senza dubbio un consumatore consapevole di party drugs, cioè di sostanze empatogene, piuttosto che eccitanti o rilassanti, che non utilizzo nella mia quotidianità ma solo in contesti di festa ben precisi, insieme a persone adulte e consenzienti come me.
Sono cosciente di come questa distinzione, molto chiara ai professionisti del settore, non sia contemplata dalla legge italiana in materia di stupefacenti e che, dunque, non mi assolva di per sé a livello legale. E, certamente, mi prenderò la responsabilità delle mie azioni, come ho sempre fatto.
La mia linea difensiva è chiara: penso di poter dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio, di non avere né clienti, né fornitori e quindi di non essere uno spacciatore e
di essere stato in stazione non per spacciare o creare allarme sociale, ma di passaggio, per prendere il treno con la bici e andare a una festa che sarebbe iniziata alle 6 di mattina a Bologna.
Il biglietto già obliterato e i messaggi dell’amica che mi aspettava al binario sono chiari. Saremmo andati ad un after-party legale, in un circolo-club, non “un rave” come scritto da qualcuno, anche qui con un termine che ormai si usa così a sproposito da aver perso di significato nel discorso pubblico.
Ci tengo oltremodo a sottolineare come io condivida pienamente la misura della sospensione dal lavoro stabilita dal giudice Ramponi, perché sono il primo a voler dimostrare che non vi sia mai stata alcuna collusione con utenti della struttura in relazione a consumi o spaccio e come la mia vita personale, in ferie o nei weekend, al di fuori dell’orario lavorativo, non abbia mai influito negativamente sulla qualità e sull’etica del mio operato, prove alla mano e col supporto dei colleghi, che sono pronti a testimoniare riguardo e questi dodici anni di lavoro insieme.
Se anche il magistrato mi avesse autorizzato a rientrare, saremmo stati io stesso e la mia cooperativa a concordare una sospensione fino a completa chiarezza sul punto. Parimenti, ci tengo a esprimere pubblicamente come, durante le fasi dei controlli e dell’arresto, i carabinieri che hanno avuto a che fare con me si siano comportati in un modo che ho percepito come estremamente corretto, rispettoso non solo delle procedure, ma anche della mia persona.
Questo per quanto riguarda la mia situazione individuale. L’invio di questa lettera ha però anche un altro obiettivo, che considero altrettanto importante e prioritario: la volontà di aprire un dibattito su questi argomenti, perché se si ritiene che il tema “sostanze” sia importante, non possiamo più permetterci di affrontarlo in maniera così grossolana e ideologica.
E se vogliamo davvero affrontare il problema del degrado delle nostre città correlato alla marginalità e ai consumi, non possiamo prescindere da una lettura approfondita, competente e pragmatica della realtà, superando termini ombrello senza significato reale come “droga” o “sballo” e parlando nello specifico dei problemi nella loro complessità e delle possibili soluzioni nella loro fattibilità ed efficacia.
Ultima riflessione: io posso ritenermi, rispetto alla legge, un privilegiato: ho una famiglia unita che, anche se culturalmente non comprende queste mie scelte, mi sostiene. Ho il rispetto dei colleghi e una rete di amicizie e relazioni importante, posso pagare le spese legali e ho gli strumenti culturali per spiegare i miei comportamenti e difendermi. Posso affrontare al meglio questa situazione.
Ma se fossi stato precario, figlio di famiglia monoreddito, non attivo politicamente piuttosto che straniero in attesa di permesso di soggiorno, mi avrebbe completamente rovinato la vita. Ritengo questo punto particolarmente sensibile e mi piacerebbe studiare modalità di azione politica o attivismo che possano in futuro essere utili a chi dovesse trovarsi nella mia stessa situazione, a causa di una condotta di vita personale e scelta liberamente, senza aver arrecato danni ad alcuno.
Se questa vicenda individuale, che come ogni interazione tra cittadino e organi dello stato è anche una vicenda politica, porterà a un dibattito costruttivo in tal senso, allora sarò felice di averla vissuta.