L’Abisso di Enia, il naufragio del nostro tempo

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Il 3 febbraio
Dalle 21
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Evento concluso

La stagione di prosa del Teatro Herberia prosegue lunedì 3 febbraio, alle 21, con lo spettacolo che ha vinto il premio Ubu 2019 come migliore nuovo testo italiano

L’Abisso di Enia, il naufragio del nostro tempo

RUBIERA (Reggio Emilia) – La stagione di prosa del Teatro Herberia prosegue lunedì 3 febbraio 2020, alle 21, con “L’Abisso” di e con Davide Enia. Lo spettacolo ha vinto il premio Ubu 2019 come migliore nuovo testo italiano o scrittura drammaturgica, ed è tratto da “Appunti per un naufragio” (Sellerio editore, autore lo stesso Enia), le musiche sono composte ed eseguite da Giulio Barocchieri. L’Abisso ha ricevuto anche il premio Hystrio Twister 2019 come miglior spettacolo della stagione e Davide Enia il premio Le Maschere del Teatro 2019 come miglior interprete di monologo.

Davide Enia torna in scena con il gesto, il canto, il cunto (arcaica forma di racconto in dialetto siciliano, ndr), per affrontare l’indicibile tragedia contemporanea degli sbarchi sulle coste del Mediterraneo. Epopea di eroi odierni, tra vita e morte, che diventa metafora di un naufragio individuale e collettivo, in una produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Biondo di Palermo Accademia Perduta/Romagna Teatri.

Racconta Enia: “Quando ho visto il primo sbarco a Lampedusa, ero assieme a mio padre. Approdarono tantissimi ragazzi e bambine. Era la Storia quella che stava accadendo davanti ai nostri occhi, la Storia che si studia nei libri, che riempie le pellicole dei film e dei documentari e che modifica la struttura del presente. Nell’arco di diversi anni, continuavo a tornare sull’isola, costruendo così un dialogo continuo con i testimoni diretti, i pescatori e il personale della Guardia Costiera, i residenti e i medici, i volontari e i sommozzatori. Parlavamo quasi sempre in dialetto, nominando i sentimenti e le angosce, le speranze e i traumi secondo la lingua della nostra culla, usandone suoni e simboli. In più, ero in grado di comprendere i silenzi tra le sillabe, quel vuoto che frantuma la frase consegnando il senso a una oltranza indicibile. In questa assenza di parole, in fondo, ci sono cresciuto. Nel Sud, lo sguardo e il gesto sono narrativi e, in Sicilia, ‘a megghiu parola è chìdda ca ‘un si dice, la miglior parola è quella che non si pronuncia”.

Le parole dei testimoni si fanno, dunque, carne. Il testo diventa allo stesso tempo testimonianza storica e percorso esistenziale che riguarda tutti noi. Scrive Enia: “Dalla registrazione delle loro voci sono emersi frammenti di storie dolorosissime eppure cariche di speranza, nonostante risuonasse di continuo un senso di morte impossibile da gestire da soli. Le loro parole aprivano prospettive e celavano abissi. Avevano le stimmate della guerra”.

Sul palcoscenico è trasferita questa lotta combattuta in mare aperto, che salva e inghiotte destini umani. Un nuovo campo di battaglia dove l’allenamento, le manovre e la velocità sono determinanti per recuperare più corpi vivi in mare e sopravvivere in prima persona alle onde.

La messa in scena fonde diversi registri e linguaggi teatrali, gli antichi canti dei pescatori, intonati lungo le rotte tra Sicilia e Africa, e il cunto palermitano, sulle melodie a più voci che si intrecciano senza sosta fino a diventare preghiere cariche di rabbia quando il mare ruggisce e nelle reti, assieme al pescato, si ritrovano i cadaveri di uomini, donne, “piccirìddi”.

Continua Enia: “Ne L’abisso si usano i linguaggi propri del teatro (il gesto, il canto, il cunto) per affrontare il mosaico di questo tempo presente. Quanto sta accadendo a Lampedusa non è soltanto il punto di incontro tra geografie e culture differenti. È per davvero un ponte tra periodi storici diversi, il mondo come l’abbiamo conosciuto fino a oggi e quello che potrà essere domani. Sta già cambiando tutto. E sta cambiando da più di un quarto di secolo. Come raccontare, quindi, il presente nel momento della crisi? Questa domanda nasconde continue insidie. In assoluto, è sempre presente rischio di spettacolarizzare la tragedia. Il lavoro è indirizzato, quindi, verso la ricerca di una asciuttezza continua, in cui parole, gesti, note, ritmi, cunto devono risultare essenziali, irrinunciabili, necessari alla costruzione. Questo ha determinato il carattere performativo del lavoro in scena, in cui si riproietta se stessi nel preciso stato emotivo che ha generato tutto, immergendosi dentro quell’esatta condizione del sentimento, in un loop che si ripete replica dopo replica, in un ritorno continuo che non ha esito se non il suo essere rivissuto, parola dopo parola, gesto dopo gesto, suono dopo suono, trauma dopo trauma, cunto dopo cunto”.

La partitura musicale, scritta e eseguita in scena da Giulio Barocchieri, è composta secondo la logica dell’accumulo che è propria dell’esperienza del trauma. Sono note e rumori che si sommano uno all’altro, in progressione, senza scampo, creando disequilibri continui, echi distorti flebili ma persistenti, in una costruzione che nel suo procedere si svela come tramatura di una unica architettura, in cui, assieme al suono disturbato e fosco di questo presente in guerra, risuonano i canti popolari dei pescatori e le preghiere per i morti in mare.